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CAFE’ DOMINGUEZ – Ti ho salutato a Dicembre con l’augurio che la tua Anima si affrancasse dall’Ego e dai suoi figli, la Paura ed il Piacere. Ho deciso di inaugurare il nuovo anno parlandoti del Perdono perché anche questo è un atto di Libertà che richiede, come il vivere liberamente, coraggio e capacità di assumersi le proprie responsabilità. Sia da parte di chi lo richiede, sia da parte di chi lo concede.
Detto schiettamente, diffido di chi non manifesta mai pentimento per le ferite causate: o ritiene di non sbagliare mai, di essere perfetto e al di sopra di ogni umana debolezza, o non ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità oppure, ancor peggio, entrambe le cose.
D’altra parte è umanamente comprensibile (dico non a caso comprensibile e non giustificabile) che la frustrazione derivante da un dolore non riconosciuto da chi lo provoca, non mitigato da una richiesta di perdono, generi una emozione di rabbia che può addirittura incunearsi nella mente e nel corpo come sentimento di rancore, qualunque siano le ragioni del torto subito.
“… Questo maledetto rancore che scorre nelle mie vene, amareggia la mia vita come una condanna. Il male che mi ha fatto è una ferita aperta che inonda il mio petto di rabbia e di fiele. I miei occhi la odiano perché la guardarono, le mie labbra la odiano perché la baciarono. La odio con tutta la forza della mia anima ed il mio odio è forte così come fu il mio amore…” [Rencor, Tango 1932, Música: Charlo, Letra: Luis César Amadori].
La ferita, il dolore ed il rancore, spesso derivano da aspettative disattese: una aspettativa di amore incondizionato o di accettazione assoluta o di rispetto o di lealtà, cui si sono contrapposti il distacco, il rifiuto, l’offesa, il tradimento. Poiché le aspettative nascono dal nostro Ego, quella voce che incessantemente ci dice come le cose dovrebbero secondo noi essere, quello sceneggiatore e regista che proietta continuamente immagini mentali di un amore ideale, una vita ideale, un genitore ideale, un amico ideale, un lavoro ideale, vi è quanto meno una corresponsabilità da parte nostra: può darsi che l’altro abbia alimentato queste aspettative come no, ma in fondo siamo noi ad averle generate.
Quel carattere di cui si è spesso orgogliosi, che altro non è che l’Ego, è determinato dalla cultura sociale, familiare, dalle esperienze di vita e da una componente per me misteriosa, un’attitudine innata. Quel carattere continua a generare aspettative, idealizzazioni e giudizi completamente soggettivi, talmente relativi e talvolta persino mutevoli, che il comportamento di una stessa persona può portare l’Ego a definirla un santo, in determinate circostanze, e magari, in un’altra situazione, il peggiore degli esseri viventi, pur restando sempre le stesse le motivazioni che muovono il povero disgraziato. Non è assurdo?
L’Ego aspira alla felicità e all’assenza di dolore, creando con le illusioni di perfezione le premesse per la delusione e quindi per l’amarezza, il rimpianto, il dolore, la cui causa è immediatamente riportata dall’Ego all’esterno: la colpa è dell’Altro che non ha soddisfatto, secondo l’Ego, le nostre aspettative.
Il rancore è l’infantile ribellione dell’Ego nei confronti di chi infligge la delusione, di chi commette un sopruso emotivo giudicato ancor più grave e vile in quanto i lividi che lascia non sono evidenti e contestabili come quelli fisici, ma si annidano quasi per sempre nelle fibre del corpo, là dove si attaccano le emozioni.
Paradossalmente, il rancore finisce con l’essere un attaccamento quasi masochista al carnefice, come si comprende dalla dualità emotiva delle immagini poetiche. “le mie labbra la odiano (ribellione) perché la baciarono (attaccamento)”.
C’è un altro tango che esprime bene questa dualità nei confronti non dell’amata ma della vita stessa, un testo dove un uomo, in punto di morte, “lascia al mondo il suo amaro testamento” alla fine di una vita che lo ha deluso completamente; in vero, che ha deluso le sue aspettative.
“… Voglio morire da solo,senza confessione e senza Dio, crocifisso al mio dolore, come abbracciato al rancore. Non devo nulla alla vita, non devo nulla all’amore: la prima mi ha amareggiato e l’amore s’è rivelato un tradimento… Non voglio la commedia delle lacrime sincere, né parole di consolazione … ” [Como abrazado a un rencor, Tango 1930, Música: Rafael Rossi, Letra: Antonio Podestá].
Un rancore che indica ancora attaccamento alla vita, anche se fatta solo di pene alle quali (ovvero sia alla vita stessa, per questo pover’uomo) è “crocifisso come abbracciato ad un rancore”. Abbracciato: quindi attaccamento ancora a qualcosa che uno non vuole allontanare, in questo caso la vita.
Tuttavia il rancore, non solo si rivela essere una mancata ribellione, visto che genera attaccamento, ma come svela la sua etimologia è anche un veleno: deriva dal tardo latino rancor, rancoris che a sua volta deriva da rancidus, rancido, inacidito, guasto, andato a male.
Il rancore si stempera a poco a poco nel risentimento che da una parte ancora manifesta il dolore emotivo e fisico (le emozioni, ci piaccia o no, vivono nel nostro corpo e vi lasciano una traccia profonda, siano esse positive che negative) e dall’altra rivela il lavorio continuo della mente (l’Ego) che insiste nel far rivivere ciò che ci ha ferito (ri-sentire), alimentando il nostro rifiuto verso la causa, come comprensibile estrema forma di difesa: per non dimenticare la lezione e non ricadere nel danno.
“Ho sopportato più che ho potuto la menzogna dei tuoi baci e mettendo a tacere il mio tormento, la mia amarezza e il mio risentimento, ho finto di crederti, poiché che a causa tua ero cieco, ma tuttavia conoscevo la miseria del tuo amore. Ti ho dato tempo, molto tempo, per vedere se saresti cambiata, ma eri così sicura del tuo inganno e del tuo tradimento, che ho dovuto dirti quello che non hai confessato e smascherare il tuo cuore codardo…” [Y no tenés perdón, Tango 1955, Música: Floreal Ruiz / Francisco Rotundo, Letra: Sara Rainer].
Il risentimento è il fuoco che cova sotto la cenere, che brucia l’amore verso il cuore codardo, quel cuore incapace di amare e sicuro della propria capacità di gestire la relazione, di manipolare l’altro approfittando del tempo che viene concesso, inutilmente, per ravvedersi. Ravvedersi ovviamente secondo le regole dell’Ego, come già detto del tutto soggettive.
Ora, io non criminalizzo l’Ego, il nostro carattere: è quello che ci permette di muoverci nel mondo, di essere riconosciuti e di riconoscerci, di valutare e decidere nel quotidiano. Ci sono indubbiamente dei limiti oltre i quali è bene non accettare il comportamento dell’Altro, superati i quali è salutare allontanarsi.
Spesso tuttavia chiedo al mio Ego di farsi da parte, per far sì che la mia Anima sfiori quella dell’Altro, con comprensione osservi ciò che è alla radice di quel comportamento per me così duro da accogliere. E’ facile? No. E’ semplice? No. Lo faccio con chiunque? No. Con i più mi allontano e basta. E’ la voce della mia Anima, è l’Amore che mi porta a questo.
Mi sono anche chiesto come riconoscere la voce dell’Ego e quella dell’Anima e azzardo una risposta: dove c’è giudizio (giusto, ingiusto, buono, cattivo) e attaccamento c’è l’Ego. Dove c’è empatia (connessione emotiva e comprensione non mediata dalla razionalità, accoglienza) ed accettazione per ciò che è parla l’Anima.
D’altra parte, cosa accadrebbe se lasciassi sempre campo all’Ego? Chiederebbe soddisfazione, chiederebbe che l’Altro implorasse perdono, e persino in questo caso a volte vorrebbe poterlo non concedere. La rabbia, il rancore, troverebbero voce piena nel desiderio di una vendetta morale.
L’Ego, ancora rancoroso e ferito, vorrebbe solo poter dire queste parole: “… Adesso, con le mani giunte mi chiedi disperatamente che io possa avere compassione di te. Ancora, mi chiedi di dimenticare tutto, di non uccidere in questo modo il tuo cuore amaro. Ti rendi conto? Non sono più disperato, vedi come sono cambiato, e che non hai il mio perdono… Ogni giorno era un delirio cosparso delle ferite che mi hai inflitto ed ho vissuto sopportando il peggio per il tuo amore. Ma oggi che sono salvato dall’incantesimo dei tuoi occhi, faccia a faccia e senza paura te lo confesso senza risentimento: non mi importa di te, non ti maledico né ti amo, poiché niente, niente, esiste più tra noi due” [Y no tenés perdón].
D’altra parte è anche opportuno, in un momento appropriato, manifestare il proprio sentire, chiedere all’altro di ri-vedere il proprio comportamento laddove sia palesemente lesivo, dove vi sia stato inganno, menzogna, tradimento, laddove le nostre aspettative abbiano avuto ben poca responsabilità, per agire un tentativo di ri-conciliazione, che è l’unica strada per provare davvero a salvare la relazione: anche la comprensione più profonda, l’amore più profondo, laddove non si manifesti all’altro il dolore subito, e non vi sia riconciliazione, portano a covare il risentimento.
“Piccola donna, quanto sei stata cattiva. Non mi sarei mai aspettato il tradimento di te. Testa pazza, sai che danno mi hai fatto? Quando ti allontani, porti con te il mio cuore. Come quegli altri fiori di fango avrai altri amori, ma non saranno che affetti di una settimana, quelli freddi che vanno e vengono. Ti perdono, perché la mia anima prega per alleviare il suo grande dolore…” [Yo te perdono, Tango 1927, Música: Roberto Goyheneche, Letra: Enrique Cadícamo].
Qui si manifesta il dolore e si concede il perdono, per alleviare il dolore e poter ancora amare. Per comprendere sino in fondo queste parole si deve contestualizzare la lirica nel periodo in cui viene scritta: è l’epoca del massimo splendore di Buenos Aires dove le ragazze più ingenue della periferia venivano strappate agli affetti familiari con l’inganno, il miraggio di una vita migliore e di fatto avviate alla prostituzione (da qui l’espressione gergale fiori di fango) nei café che andavano sorgendo, ad imitazione dei café chantant Parigi, nel centro della città.
Ragazze ingenue, donne-bambina: ecco da cosa nasce la tenerezza con cui il poeta si rivolge all’amata che lui chiama piccola donna. Lui ri-vede ciò che è stato alla luce di un contesto più ampio e con empatia cerca la ri-conciliazione. Lui sa amare e perdonare.
Per contro, in assenza di riconciliazione, il risentimento taglia le catene che legano ad un rapporto che diviene malsano, in quanto uno può tutto e l’altro solo sopportare in silenzio. Ma è proprio questo sopportare in silenzio, questo ri-tenere le proprie emozioni, il proprio dolore ed il continuo dare credito all’altro che alla fine presentano a chi se ne approfitta il conto più salato da pagare: l’indifferenza ovvero la perdita totale.
“… E adesso mi cerchi per chiedermi perdono, mi canti con la tua serenata che muori d’amore. Ti chiedo un favore, non prendertela a male: vai con I tuoi versi da tua madre… Ti chiedo un favore, non prendertela a male. Vai via e non tornare mai più…” [Perdoname la torpeza, Tango, Música: Claudia Levy, Letra: Claudia Levy].
Perdono proviene dal latino medievale è composto da per (che indica un compimento) – donare (concedere senza condizioni). Nel perdono vero, sincero, non si fa marcia indietro e come nel donare non si chiede un corrispettivo: “ti perdono se” non ha senso. Perdonare è un gesto di libertà assoluta, poiché prescinde da qualunque richiesta dell’Altro e perché permette di lasciare indietro ciò che è stato e quindi di ricevere ciò che verrà, non importa da dove. In assenza di perdono si resta ancorati al dolore del passato, l’Anima prigioniera di un gelo crudele, ancor peggior dell’odio.
“… Se avessi il cuore… (Il cuore che ho donato!…) se potessi come in passato amare senza presentire la ferita … Si è soli nel proprio dolore… Si è così ciechi nei propri pensieri… Ma è in me un gelo crudele, ancor peggio dell’odio, punto morto della mia anima, tomba orrenda del mio amore… maledico per sempre chi mi ha rubato tutta la mia capacità di amare…” [Uno, Tango 1943, Música: Mariano Mores, Letra: Enrique Santos Discépolo].
Ed ecco si svelano a poco a poco di due volti del perdono.
Il primo: l’incapacità di concedere il perdono porta all’incapacità di amare nuovamente, che sia per abbandonarsi di nuovo al rapporto con l’Amata o aprirsi, nel caso la relazione finisca per qualunque ragione, ad un nuovo amore.
Il secondo: specularmente l’incapacità di chiedere perdono deriva dalla incapacità più in generale di assumersi qualsiasi responsabilità, ed in particolare di amare, poiché amare è promettere con tutto il cuore se stessi all’Altro, è donarsi all’Altro senza riserve.
Per apprezzare fino in fondo il valore del perdono, consideriamo che questa parola è a sua volta la traduzione latina del greco aphiemi “mettere in libertà”. Chiedere perdono è chiedere di essere davvero liberi dal senso di colpa. Perdonare è sia liberare una persona da questo fardello ma anche sentirsi liberi: liberi da rancore e risentimento, liberi di vivere senza condizionamenti.
Attenzione agli equivoci, però: perdonare non significa dimenticare, poiché anche attraverso l’esperienza dolorosa si conosce l’Altro e si può capire davvero chi sia, comprendendo se, pur perdonandolo, sia il caso di lasciarlo vivere la propria vita lontano da noi oppure se, lasciandoci alle spalle il passato, la nostra Anima voglia ancora perseguire un comune progetto di vita.